Come aiutare i pazienti a raccontare la loro storia?
I dettagli che spesso i pazienti omettono, o per vergogna, senso di colpa e protezione della reputazione, delineano una storia che in realtà è incompleta! Vediamo alcune tecniche da utilizzare per favorire una maggiore apertura nel narrare la propria storia.
Ogni volta che sentiamo una storia rispetto ai problemi familiari di una persona, sia che ci venga raccontata o che la leggiamo su un notiziario, internet, e così via, questa risulterà spesso incompleta.
La storia raccontata può essere vera fino ad un certo punto, in quanto spesso lascia fuori i dettagli e le informazioni sul contesto in cui gli eventi si sono verificati.
Questi dettagli possono modificare drasticamente qualsiasi impressione su ciò che è accaduto, tanto da portare chi legge o ascolta a crearsi un’immagine di quella storia completamente diversa da quella iniziale.
Lo stesso si può dire per le storie raccontate dai nuovi pazienti che approdano nello studio dello psicoterapeuta.
L’obiettivo del presente articolo è quindi quello di descrivere alcune tecniche terapeutiche utili per ottenere una descrizione più completa di quanto sta realmente accadendo.
Ogni volta che il Dottor David Allen, Docente presso l’Università del Tennessee, sottolinea ai suoi pazienti il fatto di non essere completamente onesti sui modelli familiari disfunzionali, “per non parlare di sé stessi”, lo accusano di supporre che stanno mentendo.
In realtà, in questo modo, si cercano solo di esaminare tutte le possibilità; pensare che i pazienti non nascondino alcune cose come causa della vergogna, senso di colpa, negazione o protezione dei propri familiari è, secondo il Dottor Allen, come “vivere in un universo alternativo”.
Per esempio, riporta il caso di un suo paziente il quale dichiarò, il giorno della sua prima consulenza, che il padre fosse un alcolista, per poi negare con decisione tale affermazione durante le sedute successive.
Si è così scoperto che in realtà non era un alcolista, ma un dipendente da eroina. Nel percorso terapeutico, il terapeuta si rapporta al paziente, lo ascolta con attenzione, e impiega alcune tecniche per aiutare a superare le sue difese.
In tal modo, ovviamente la trama, quasi invariabilmente, si addenserà e l’intera storia emergerà gradualmente.
Le informazioni aggiunte non fanno altro che presentare il paziente in una luce completamente nuova.
Una tecnica di psicoterapia comunemente utilizzate per favorire un’apertura nei pazienti è chiamata “L’interrogatorio in stile Colombo”, un famoso detective televisivo interpretato dall’attore Peter Falk.
Spesso i sospetti potrebbero auto-incriminarsi, e il detective non fa altro che mettere in evidenza le discrepanze nella storia del sospettato: non gli avrebbe certo mai detto che pensasse che il sospettato lo volesse intenzionalmente ingannare, anche se evidentemente questo era proprio il caso.

A questo punto, il sospettato cercherà poi di “aiutarsi” nel cercare di chiarire l’apparente discrepanza, ma spesso fallendo nell’intento.
Nella terapia, l’oggetto di questa strategia non è naturalmente quello di portare l’altra persona ad incriminare sé stessa, quanto piuttosto favorire un’apertura sincera e reale sulla propria condizione.
Quando i pazienti si contraddicono o si impegnano in processi logici complessi, il terapeuta può tacitamente esprimere confusione su ciò che la persona cerca di dire o sottolineare apparenti contraddizioni.
Ciò è fatto in modo quasi scontato e con un tono di fatto; piuttosto che accusare l’altro di essere intenzionalmente fuorviante o confuso, i terapeuti cercano di indicare che essi stessi stanno assumendosi la responsabilità di quella mancanza di comprensione interpersonale.
Con questa strategia, il paziente o un membro della famiglia, spesso si sente obbligato a risolvere la confusione.
Per farlo, deve quindi spegnere il pulsante “logico” e rivelare nuove informazioni; quando questo accade, è importante che il terapeuta sembri grato per la nuova chiarezza.
In un contesto non terapeutico, il mantenimento di questo stile legato all’auto-efficacia è spesso particolarmente difficile se vi è una componente dell’argomento, da parte del membro della famiglia piuttosto che di un amico o un partner, che suona come un attacco personale.
In tal caso, il meta-comunicatore sarà quello che di solito diventa difensivo, e quindi deruberà il proprio sforzo per cercare di risolvere il problema in corso.
Se, invece, nel contesto terapeutico, ci si sente accusati di essere troppo sensibili, stupidi o irrazionali, la risposta migliore non è quella di argomentare se è vero, mettere in discussione o rimproverare il soggetto, divenendo così difensivo.
Si potrebbe tranquillamente rispondere: “beh, probabile, ma voglio cercare di capire alcune delle cose che dice”.
Nella terapia, i pazienti spesso contraddicono ciò che hanno affermato nelle sessioni precedenti, quindi è importante che il terapeuta ricordi tutte le cose che il paziente ha affermato durante il percorso.
Pertanto, prima di ogni sessione successiva, bisognerebbe fare una rapida panoramica di tutte le note precedenti, e aggiornare così la memoria.
Mentre i pazienti parlano di ciò che gli viene in mente rispetto alle questioni in corso, spesso dicono qualcosa che contraddice qualcosa che hanno detto prima casualmente.
Ciò può dunque sfuggire all’orecchio di chi ascolta; a volte questo accade anche mentre i pazienti stanno discutendo di questioni che sembrano essere totalmente indipendenti.
Quando una contraddizione avviene più di una volta, diviene ancora più facile affrontarla; ovviamente il chiarimento dev’essere effettuato senza accusarli di cercare di oscurare i problemi o di voler confondere il terapeuta.

Un’altra tecnica terapeutica che ha l’obiettivo di ampliare l’ambito di un’inchiesta è il “pattern matching”. La storia del paziente può infatti ricordare al terapeuta esperienze legate alle proprie disfunzioni familiari; questo aspetto può essere sfruttato dal terapeuta per aiutare il paziente ad osservare (dall’esterno) un comportamento che è simile al suo, per una specifica situazione.
Le ipotesi che il terapeuta può formulare, si pongono come domande indirette nei confronti del paziente.
La modalità di risposta, affermativa o negativa, da parte dell’utente, consente comunque un abbassamento della loro difesa.
Nel caso in cui il paziente accetta l’interpretazione del terapeuta, condividendo quanto osservato, capita spesso che un gruppo di nuove informazioni iniziano ad uscire e, ovviamente, questo è il miglior risultato.
Un altro risultato positivo riguarda invece la possibilità che il paziente non sia d’accordo con il terapeuta, ma questo innesca comunque il venire a contatto con altre nuove informazioni.
Questo solitamente significa o che il terapeuta sia parzialmente corretto, ma manca qualcosa di importante, o che il terapeuta sta cercando di portare avanti qualcosa in modo prematuro, prima che il paziente sia pronto ad ammettere alcune cose.
Tra i risultati peggiori si possono invece creare situazioni in cui il paziente è d’accordo con il terapeuta, ma non aggiunge ulteriori informazioni, quindi ciò implica che l’accondiscendere a quanto sostenuto dal terapeuta è solo un modo di “placarli”.
Volendo concludere, quando questo accade, il terapeuta dovrebbe chiedere al paziente cosa ne pensa, restando in silenzio e sentendo cosa ha da dire.
Tratto da PsychologyToday
(Traduzione e adattamento a cura della Dottoressa Giorgia Lauro)