Il paziente e la relazione terapeutica
Quello che il paziente fa nella stanza con il terapeuta rivela modelli di relazione permanente, e nel rapporto terapeutico, questi modelli possono essere riconosciuti, compresi, e rielaborati.
Le figure genitoriali, meglio conosciute, in un'accezione psicoanalitica, con il termine di “figure di attaccamento”, costituiscono i modelli per le nostre relazioni successive.
Di conseguenza, sviluppiamo la tendenza a ripetere i modelli dei nostri rapporti per tutta la vita; poiché sono presenti sin dall'inizio, questi modelli possono essere invisibili, ma riescono comunque a plasmare il nostro “destino”.
Questa premessa può essere utile a comprendere che la terapia è una relazione, e i pazienti portano in essa i propri modelli di attaccamento.
Come terapeuti, entriamo nel campo gravitazionale dei modelli relazionali problematici dei pazienti, sperimentandoli e partecipando alla strutturazione di essi.
Riconoscendo tale inevitabile partecipazione a questi modelli, possiamo aiutare i nostri pazienti a comprenderli e rielaborarli.
Tale aspetto terapeutico è quello che possiamo definire come il “cuore” della terapia psicodinamica.
Caroline, è una donna di 30 anni, elegante, educata e di successo; la sua femminilità e portamento la rendono quasi una modella di Vogue.
È particolarmente ammirata e corteggiata da uomini che la maggior parte delle altre donne desiderano, eppure è una solitaria.
Non è infatti stata in grado di mantenere una relazione intima duratura e soffre spesso di crisi depressive.
Caroline ha tentato la terapia più volte e ammette, con una certa amarezza, che “non è mai cambiato nulla”.


I terapeuti con una formazione specifica di tipo cognitivo-comportamentale, o altre terapie basate sull'evidenza, raramente attribuiscono un grande significato al commento di Caroline sulle sue relazioni terapeutiche passate.
Alcuni sostengono che Caroline possa avere bisogno di un terapeuta “sicuro” che non sarà intimidito dal suo status o dal suo aspetto.
Dal punto di vista psicodinamico, è irrilevante se il terapeuta di Caroline sia personalmente sicuro o insicuro, in quanto necessita di un terapeuta con la consapevolezza di sé ed il coraggio di notare quel segno di insicurezza che è presente in Caroline, trattandola come informazione e mettendola al servizio della comprensione.
In una situazione di questo tipo il terapeuta potrebbe commentare:
“Lei è venuta qui per ottenere il mio aiuto, ma ancora in molte delle nostre interazioni, ho una vaga sensazione come se lei dovesse impressionarmi o ottenere la mia approvazione, cosa che ovviamente non aiuta affatto. Sto cercando di capire cosa significhi, e se potrebbe essere una finestra per comprendere qualcosa su ciò che accade nei suoi rapporti in generale. Forse questo è un qualcosa che le è familiare!”.
È proprio in questo preciso istante, secondo il Dottor Jonathan Shedler, docente di psicologia presso la University of Colorado School of Medicine, che la terapia reale può iniziare.
Caroline non sarebbe infatti riuscita a descrivere ciò che non funzionava o andava storto nelle sue relazioni: le cose che ha fatto per cercare di attirare le persone sono state proprio quelle che hanno impedito una reale connessione e intimità.
Le donne erano invidiose o deferenti; gli uomini la vivevano come una conquista fuori dalla loro portata, pertanto, in entrambi i casi, la connessione intima era impossibile.
Caroline non riusciva a pronunciare alcune cose al suo terapeuta, perciò gliele mostrò. Quello che il paziente fa nella stanza con il terapeuta rivela modelli di relazione permanente, e nel rapporto terapeutico, questi modelli possono essere riconosciuti, compresi, e rielaborati.


Questo è un aspetto centrale per la terapia psicodinamica, che è invece assente in altre terapie.
Un autore prominente della terapia cognitivo-comportamentale ha scritto un articolo sui miti e le realtà di tale approccio.
Un mito, secondo l'autore, è che l'approccio cognitivo-comportamentale non si sofferma molto sulla relazione terapeutica.
Per dimostrare che non è così, l'autore ha spiegato che i terapeuti cognitivo-comportamentale “fanno molte cose per costruire una forte alleanza. Ad esempio, lavorano in collaborazione con i clienti, chiedono un feedback e si comportano come esseri umani autentici, caldi, empatici, interessanti e via dicendo”.
Secondo il Dottor Shedler, che commenta ironicamente, da uno psicoterapeuta “mi aspetto qualcosa di più”, in quanto, il sottolineare l'impegno profuso dal terapeuta “sembrava non rimarcare il concetto che la relazione terapeutica sia una finestra del mondo interiore del paziente, o un laboratorio delle relazioni in cui i modelli di vita possano essere riconosciuti e capiti, per poterne creare dei nuovi”.
Alcune persone possono quindi sentirsi soddisfatte e trarre giovamento dalla relazione con terapeuti che “lavorano in collaborazione” e conducono la terapia promuovendo l'insegnamento di alcune tecniche.
Coloro che vogliono però cambiare più nel profondo potrebbero desiderare un terapeuta che abbia una maggiore consapevolezza di sé, conoscenza e soprattutto il coraggio di vedere e parlare di ciò che più conta e, allo stesso tempo, spaventa.
Tratto da PsychologyToday
(Traduzione e adattamento a cura della Dottoressa Giorgia Lauro)