La Compassion Fatigue dei terapeuti
Tra il 1985 ed il 1992, il Dottor Charles R. Figley, sviluppò il concetto di “Compassion Fatigue” con il quale si intende una sensazione di stress cronico, esaurimento emotivo e tensione spesso avvertita dai terapeuti come reazione alla grande sofferenza di chi aiutano.
Come clinici, tutti proferiamo frasi del tipo: “Dobbiamo prenderci cura di noi stessi”.
Diamo potere ai nostri colleghi, pazienti e familiari ripetendo questo mantra nei momenti di stress. Ma, troppo spesso, ci dimentichiamo di assumere per noi questo consiglio.
Ad un certo punto, come esseri umani, noi psicologi e terapeuti non riusciamo a riconoscere i nostri limiti.
Prendiamo un altro caso, lavoriamo un altro fine settimana, prendiamo un'altra chiamata, il tutto sotto la premessa che questo carico di lavoro è ciò che siamo costretti a fare.
Ma cosa succede quando iniziamo a cadere a pezzi?
La Compassion Fatigue
Tra il 1985 ed il 1992, il Dottor Charles R. Figley, sviluppò il concetto di “Compassion Fatigue” con il quale si intende uno stato di estrema tensione e preoccupazione che vivono coloro che attraversano la grande sofferenza di chi aiutano.
La sindrome da Compassion Fatigue è una sensazione di stress cronico, esaurimento emotivo e tensione spesso avvertita dai terapeuti, dai consulenti e da chiunque altro coinvolto nelle professioni di aiuto.
È comune che i clinici sviluppino questa sindrome ad un certo punto della loro carriera, dato che il loro stesso lavoro li porta ad 'assorbire' storie di abusi, morte e traumi.

L'elemento centrale di questa sindrome è l'incapacità dei clinici di impegnarsi in una relazione terapeutica produttiva con un paziente.
Questo fenomeno si manifesta in molti modi e si differenzia da un clinico all'altro. Alcuni sviluppano un trauma secondario, che si verifica quando un clinico viene esposto indirettamente ad un trauma attraverso la voce dei suoi pazienti.
Altri clinici sperimentano sintomi di ansia e depressione, perpetuando così il loro esaurimento emotivo. La schiacciante empatia che offriamo ai nostri clienti ci lascia tutti impotenti a prescindere dalle storie quando sperimentiamo la compassione fatigue.
Questa, per tutti un denominatore comune: la mancanza della cura di sé. Sappiamo che dobbiamo prenderci del tempo per prenderci cura di noi stessi e quando non riusciamo a farlo come psicologi, diventiamo più suscettibili a meccanismi di coping rischiosi per la salute.
Secondo Norcross (2000), riflettendo sulla pratica professionale, “prendendosi del tempo per diventare consapevoli di noi stessi durante il trattamento, le recensioni dei casi e l'identificazione dei risultati positivi del cliente sono tutti modi per aiutare a preservare il nostro io professionale”.
Quando ci prendiamo il tempo per farlo, dobbiamo affrontare molti sintomi fisici e psicosociali negativi. A volte, i nostri corpi possono diventare così deboli che sviluppiamo sintomi fisici come febbre, dolori di stomaco e dolori al petto.
In casi estremi, i clinici possono sviluppare sintomi correlati al disturbo da stress post-traumatico, nonostante il trauma derivante da una fonte indiretta.
Iniziamo a ritirarci da amici e parenti, ossessionati da cose che non riusciamo a lasciare nella stanza di analisi e passiamo le notti a girarci e rigirarci.
Diventiamo brevi o distanti con i nostri colleghi e ci troviamo incapaci di concentrarci su un compito perchè le nostre menti stanno correndo più velocemente di quanto possiamo comprendere. Ci troviamo a chiederci come siamo arrivati qui.
Cercare supporto
Quando i clinici iniziano a sentirsi in questo modo, è importante cercare supporto per convalidare le nostre emozioni. Dobbiamo entrare in empatia con noi stessi come faremmo con i nostri clienti.
Dobbiamo riconoscere la nostra responsabilità di aiutanti per aiutare prima noi stessi a servire meglio coloro che ci circondano.
Dobbiamo renderci conto che ci è permesso avere una reazione umana alle storie dei nostri pazienti, ma dobbiamo lavorare per elaborare queste storie per impedire loro di interferire con le nostre vite personali e professionali.
Dobbiamo lavorare per essere continuamente consapevoli di sé e riflettere, così da non dissociarci dalla realtà e diventare insensibili a chi ci circonda.
Spesso viene incoraggiato il fatto di cercare la terapia o la supervisione per aiutarci a gestire la nostra salute mentale, specialmente quando abbiamo a che fare con problemi di salute o familiari.

Le problematiche affrontate dai nostri clienti possono facilmente diventare le nostre lotte personali ed il supporto della terapia può aiutarci a rimanere in linea come clinici a mantenere i confini professionali.
Quando abbiamo a che fare con la nostra stessa perdita, trauma o altre circostanze che alterano la vita, un ambiente di supporto può offrirci la convalida di cui abbiamo bisogno per aiutarci ad andare avanti, spesso, la stessa validazione che offriamo ai nostri clienti.
Abbiamo paure ed insicurezze e proviamo dolore come tutti gli umani, e dobbiamo trattarci con la stessa cura ed empatia.
Dobbiamo ricordare che c'è un grande coraggio nel cercare un supporto al fine di divenire versioni più sane di noi stessi e riconoscere le nostre forze.
Siamo clinici, ma in primis, siamo umani. Non siamo diversi da quelli che aiutiamo. È ora di iniziare a praticare ciò che predichiamo!
A cura della Dottoressa Giorgia Lauro