L'Effetto Spettatore
Da quando i media americani hanno pubblicato la storia nel 1964 dello stupro e omicidio di Kitty Genovese, gli psicologi sociali Bibb Latanè e John Darley hanno dato un nome al fenomeno psicologico noto come “effetto spettatore”.
Il 13 marzo del 1964 , Kitty Genovese stava tornando a casa dopo il lavoro e, a pochi metri dalla sua porta, fu aggredita da un uomo armato di coltello che l'ha pugnalata e poco dopo violentata.
Kitty è morta durante il tragitto in ospedale senza che nessuno potesse salvarla.
All'inizio, la stampa riferì che circa 38 persone avevano assistito all'omicidio senza cercare di fare nulla per impedire quanto stavano vedendo.
Successivamente, la stampa si corresse, affermando che il numero era stato esagerato, e che gli “spettatori” erano più o meno 12, tra quelli che hanno sentito o visto parte del crimine.
Solo un passante ha urlato all'uomo di lasciarla stare, ma la domanda che tutti si sono posti è:
“Perchè nessuno si è avvicinato per aiutarla?”.
Numeri a parte, il caso di Kitty Genovese è stata un'occasione per studiare il già identificato “effetto spettatore”: in caso di situazioni di emergenza, gli spettatori presumono che “qualcun altro” interverrà, e alla fine tutti si asterranno dal farlo.
Da quando è avvenuto tale episodio a New York e la freddezza della società è stata duramente criticata, gli psicologi hanno studiato questo fenomeno che, per riassumere, diluisce la responsabilità dei testimoni in una situazione di emergenza e, invece di aiutare qualcuno che ha bisogno, proseguono dritto o ignorano la vittima.
L'effetto spettatore produce una conclusione deprimente: maggiore è il numero di spettatori che osservano una situazione di emergenza, minore è la probabilità che qualcuno deciderà di aiutarla.
Perchè?
Nell'effetto spettatore, ci sono tre processi sociali che spiegano questa forma di “paralisi”:
In primis, la responsabilità è diluita; dato che ci sono più persone in giro, il nostro cervello ragiona come segue: “qualcuno lo farà; interverrà per aiutare”.
Conclusione: maggiore è il numero di spettatori che vedono una persona che ha bisogno di aiuto, meno si sentiranno in dovere di intervenire.
Nessuno è responsabile e quindi nessuno aiuta la persona che vive una situazione di pericolo.
Secondariamente, va considerato l'aspetto della conformità sociale o ignoranza pluralistica: anche se tutti pensano la stessa cosa, non agiamo per paura di ciò che gli altri penseranno.
Modifichiamo quindi il nostro comportamento ed il nostro atteggiamento armonizzandolo con il gruppo in cui siamo.
Pensiamo che siamo noi a interpretare la situazione in un modo esagerato e che, forse, “non sta accadendo nulla”.
Infine, vi è la paura di essere valutati: se interveniamo per aiutare la vittima, il resto degli “spettatori” starà a guardare e a giudicare se lo stiamo facendo bene o male.
Cosa si può fare per evitare di cadere in questa trappola di inazione?
Alcuni psicologi suggeriscono che l'essere consapevoli di questa tendenza è forse il modo migliore per rompere il ciclo.
Di fronte ad una situazione che richiede un'azione, capire come l'effetto spettatore potrebbe trattenerci ci consente di prendere consapevolmente le giuste decisioni per superarlo e aiutare chi si trova in pericolo.
Tuttavia, questo non significa che bisogna rischiare noi stessi il pericolo. Ma cosa succede se ci si trova invece al posto della vittima? Come si possono spingere gli altri a farsi dare una mano?
Una tattica spesso raccomandata è quella di individuare una persona della folla, stabilire un contatto visiva con essa e chiedere specificamente aiuto.
Personalizzando e individualizzando la richiesta, diventa molto più difficile per le persone rifiutare quella richiesta.
A cura della Dottoressa Giorgia Lauro