L'anoressia rabbiosa
Articolo a cura di Luciano Peirone ed Elena Gerardi
Malattia, disagio, e cos'altro? L'anoressia è una forma patologica con immediata prevalenza di tipo organico-fisiologico (eccessivo dimagrimento, talvolta con origine endrocrina, e vomiting behaviour), ma in effetti il più delle volte con componenti di ordine psicologico (distorsione percettiva e deformazione della propria immagine corporea; esasperazione del sintomo “rifiuto del cibo” in base a pensieri comportamenti di tipo ossessivo; disturbi della sfera emozionale-affettiva; conflitti interpersonali; disturbi della sessualità).
Considerata dal punto di vista psicologico, l'anoressia presenta non di rado la possibilità di venire inquadrata quale malattia/disagio (per lo più adolescenziale-giovanile) connessi a ribellione rivolta nei riguardi del mondo adulto (e familiare, in particolare), alla spasmodica ricerca di una identità di difficile e sofferta realizzazione.
La caratteristica tipica dell’anoressia nervosa/psicogena, secondo il criterio stabilito dal DSM-IV (revised edition), è “il rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra del peso minimo normale”. I risultati visibili, per lo più somatici, sono una magrezza esasperata, la dismenorrea/amenorrea, l'abuso di purganti, l'eccessiva attività fisica, e soprattutto il vomito, per lo più intenzionale; mentre, sotto il profilo psichico, spicca l'alterata percezione della propria immagine corporea, in altre parole un distorto giudizio (svalutazione, rifiuto, negazione) sul proprio aspetto, e quindi una problematica dimensione estetica del Sé.
Sicuramente malattia, nel senso medico del termine. Sicuramente disagio, nel senso psicologico (comportamentale e relazionale-sociale) del termine. Ma in effetti, c'è dell'altro... ben oltre l'etichetta di ordine nosografico-psichiatrico, e quindi lungo un'ampliamento realizzato mediante l'ottica psicodinamica.
Cosa e come indagare, per capire e curare meglio
Le classiche esposizioni - all'incrocio fra medicina, psichiatria e psicologia (Palazzoli Selvini, 1963; Bruch, 1973 e 1977; Garner e Garfinkel, 1997; Brusset, 1998; Fairburn e Brownell, 2002) – vedono spesso una trattazione di ampio respiro e sistematica. Nel presente lavoro si vuole invece mettere l'accento su un aspetto particolare, focalizzando pertanto un elemento sì frammentario ma probabilmente di grande importanza (soprattutto in funzione delle difficoltà e dei fallimenti che si incontrano nel trattamento della anoressia).
E' importante tracciare alcune linee-guida lungo la “comprensione profonda” di questo devastante “star male”, distinguendo due modelli psicoanalitici: la “anoressia paranoide” (della quale poco si parla) e la “anoressia depressiva” (più diffusa e ben più abbordabile e curabile). Tale distinzione - di derivazione kleiniana, ovviamente riferentesi a “posizioni” e non necessariamente a “stadi precoci dello sviluppo” - risulta gravida di effetti in campo clinico-operativo, ed è ovviamente di taglio psicodinamico profondo. Resta tuttavia centrale la visione della anoressia intesa quale problema elaborato in termini relazionali-familiari, sia come approccio in termini di psicoterapia (Palazzoli Selvini, Cirillo, Selvini e Sorrentino, 1998) sia come approccio in termini di psicologia della salute (Peirone, 1998).
Rilievi teorico-metodologici
Mediante l'osservazione, la valutazione diagnostica e il trattamento (sia in ambito consultivo su dinamiche familiari, sia in gruppi di auto-mutuo aiuto, sia in contesti di psicoterapia intensiva), da parte di chi scrive si è applicata - nel corso di numerosi anni - una sistematica chiave di lettura. In quanto malattia psico-somatica, l'anoressia è stata indagata mediante un inquadramento prevalentemente psicoanalitico (con ampi riferimenti alla teoria delle relazioni oggettuali, alla dimensione interpersonale, alla prospettiva relazionale-sistemica di ordine familiare), sottolineando in particolare i pesanti vissuti in termini di aggressività e odio, lungo un trend di ordine psicopatico/caratteropatico, e quindi di disturbo della personalità.
E' il caso di sottolineare quanto importante sia oggi un discorso sull'anoressia in grado di tener conto di punti-chiave che svariati autori hanno saputo individuare (pur se in contesti differenti dalla anoressia direttamente intesa), punti-chiave che si rivelano basilari nel collegamento a tale forma patologica: si è pertanto nella prospettiva di costruzione di un modello eclettico-integrato. Tale modello vuole essere non esaustivo, ma capace di colmare alcuni “vuoti” sia teorici sia applicativi. Lungo una linea interpretativa che parte da S. Freud (1915-1917), attento agli aspetti isterici delle nevrosi di conversione e all'importanza della oralità (cruciale zona-fase erogena per lo sviluppo della libido e l'organizzazione della sessualità), è possibile trovare (e utilizzare) un fil rouge in grado di cucire variegati (ma affini e convergenti) “pezzi della anoressia”.
Non si possono ignorare gli interfaccia tra il binomio attaccamento-perdita (Bowlby, 1969- 1980) e l'insieme costituito da simbiosi, dipendenza e separazione-individuazione (Mahler, 1968; Mahler, Pine e Bergman, 1975), come pure la capacità/incapacità di essere solo (Winnicott, 1958) per cui non è difficile incorrere nell'errore del Falso Sé (Winnicott, 1960), come pure il concetto di relazione oggettuale (Kernberg, 1976) con le sue implicazioni in fatto di mondo fantasmatico interno.
Rilievi diagnostici e prospettive di lavoro clinico
E' soprattutto a partire dalla teoria kleiniana (Klein e Rivière, 1937; Klein, 1957) - con i centrali concetti di amore, colpa, odio, riparazione, invidia, gratitudine - che si riesce a fornire soddisfacenti spiegazioni della anoressia paranoide, lungo la ricca produzione fantasmatico- inconscia, focalizzata in particolare sul concetto di “controllo sadico-onnipotente”. I parametri chiave risultano pertanto i seguenti.
Ribellione “muta”: parla il corpo e non la voce. E' una ribellione improduttiva (non riesce a cambiare alcunché, anzi peggiora le cose in senso autolesionistico-masochistico), incapace di rivoluzione, incapace di cambiare (tanto il mondo esterno quanto il mondo interno).
Rabbia inespressa, e per ciò stesso “coltivata” e incrementata lungo una escalation teoricamente infinita, spesso affiancata da invidia “divorante” (divorante il soggetto stesso).
Cattiveria: ovvero “cattività”. Prigioniero del corpo (smagrente e vomitante), prigioniero della mente (ossessiva, fredda e calcolatrice), prigioniero dell'anima (devastata da fantasmi “odianti e cattivi”): questo è l'anoressico “paranoide e non collaborativo”, ben chiuso nella sua “fortezza armata”, per l'appunto capace di “odiare in silenzio” e di “farla pagare a tutti, compreso se stesso”, anche a costo di perseguire un tendenziale “suicidio differito”, atteggiamento-comportamento accompagnato dall'inconscio desiderio di indurre nell'altro “sensi di colpa” (e non tanto “senso di pietà”, come nel caso della “leggera” anoressia di taglio depressivo).
Secondo i dettami dell'esasperato “controllo di tutti e di tutto”, il malato si muove con una “azione vendicativa”, con una sostanziale inautenticità e poderosi meccanismi di menzognamanipolazione, lungo la linea di un pesantemente danneggiato “Falso Sé” (querulomane, rancoroso, odiante, rabbioso, per l'appunto “cattivo”: prigioniero delle parti cattive). Non è un caso che nel vomiting lo svuotamento gastrico serva non solo a controllare-diminuire il proprio peso corporeo, ma anche a scaricare tensioni, in particolar modo aggressività e rabbia. La “cattiveria” che pervade una simile inautentica personalità in tal modo risalta (all'occhio attento...).
Questo Falso Sé è in grandissima parte inconscio nonché inespresso: pertanto, esso risulta sia di difficile auto-consapevolezza da parte dell'anoressico sia di difficile rilevazione da parte dello stesso terapeuta. Persino l'”esperto” rischia fortemente di venire “sviato” ed “invischiato” dalle modalità ingannatorie del paziente.
Di fronte a siffatti pazienti occorre assolutamente evitare sia il “pietismo” sia il “buonismo”: occorre invece, freddamente e lucidamente, saper cogliere i pericoli insiti in una relazione ampiamente falsata dalla malattia, “malattia disonesta” in quanto fortemente manipolante (sia il terapeuta sia il paziente stesso). Da parte del tecnico, da parte del professionista, occorre imparare a gestire un setting al tempo stesso pericoloso e delicato: in particolare, una interazione transferalecontrotransferale di notevole difficoltà.
Al di là della tecnica terapeutica va pertanto evidenziata l'importanza della valutazione diagnostica: ribellione muta, rabbia inespressa e cattiveria/odio/rancore designano un quadro nosografico abbastanza differente da quel che il più delle volte, anche ingenuamente, ci si attende da un malato di anoressia. Questo malato paranoide tende a restare “malato”, difficilmente diventa un “paziente” e, se proprio lo diventa, occorre fortemente diffidare della sua buona fede. In questo “paziente” c'è più forma che sostanza, c'è più apparenza che collaborazione.
A questo punto, inevitabilmente, nella anoressia paranoide - fortemente inautentica – pullulano rigogliose “piante mortifere”: l'adolescenziale giardino (in fondo, l'anoressico, quale che sia la sua età anagrafica, resta un “adolescente”, spesso “incazzato”) è sì “segreto” ma anche “avvelenato” (Peirone e Gerardi, 2009).
Quali sono le linee-guida per far fronte ad un simile disturbo portato all'eccesso? Come gestire un simile tipo di anoressia? Che fare di una affettività piena soltanto di negatività? L'anoressia paranoide-rabbiosa è una forma patologica (somatica e mentale, affettiva e relazionale) caratterizzata da comportamenti irregolari, e soprattutto estremi nei confronti del cibo, e di tutto ciò che vi risulta correlato.
Nella psicoterapia si richiede pertanto un intervento in grado non solo di restituire al cibo il suo corretto ed equilibrato valore quale nutrizione, quale stile di vita, quale momento edonistico, ma anche di ricostruire un tessuto relazionale esterno (ed interno) incentrato su oggetti buoni, e quindi da non odiare.
Aggressività, risentimento, odio, gelosia, invidia, cattiveria, rabbia: tutto ciò conduce ad una insufficiente (in effetti, vista l'estremizzazione, ad una mancata) elaborazione del senso di colpa. A fronte di tale spiegamento di “affettività negativa”, vengono di conseguenza compromesse le capacità di ricevere-dare affetto buono.
In particolare, sono l'amore e la gratitudine a venire danneggiati. L'anoressico rabbioso è pressoché incapace di provare il sentimento dell'”esser grato a qualcuno”: ritiene, per lo più inconsciamente, di non aver ricevuto abbastanza, per cui non sa dire “Grazie!”, e non sa dirlo perché non lo sente dentro, oppure lo dice ma mentendo (all'Altro e a se stesso). L'assenza di gratitudine deriva dal non aver saputo “dar vita” (sic! infatti si è pieni di oggetti cattivi, inerti e morti) al processo di riparazione. Se non si sa amare, non si sa neppure esser grati.
Sulla persona portatrice della sindrome anoressica rabbioso-paranoide, il progetto curativo a matrice psicologica va focalizzato sia sull'“aiutare” sia sullo “scavare” sia sul “normare” (anche duramente: trattandosi di una dipendenza). Sopra ogni cosa, vanno chiariti i significati (quasi sempre massicciamente inconsci) ruotanti intorno ad un corpo che si ribella in maniera silenziosa, intorno ad una mente che “pensa troppo e male”, intorno ad un'anima colma di livore che non sa chiedere affetto ed aiuto, se non in questi modi inefficaci e disperati.
Lo scioglimento della tensione rabbiosa deve necessariamente passare attraverso una massiccia e difficile e sofferta elaborazione depressivo-riparativa, in grado di “pacificare” il malato con il terapeuta, con i vissuti transferali, con gli oggetti interni, con gli oggetti esterni, con il cibo, con se stesso: insomma, con la vita stessa.
Bibliografia
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Professor Luciano Peirone e Dottoressa Elena Gerardi, psicologi psicoterapeuti