Lo stress nei luoghi di lavoro
La maggior parte degli esseri umani sono impegnati per molte ore della loro vita in un’attività lavorativa e si possono immaginare le conseguenze dannose che un malessere generato in questo lungo periodo potrebbe creare sul loro stato di salute.
La recente definizione della Commissione Europea (1999) dello stress lavorativo “un insieme di reazioni emotive, cognitive, comportamentali e fisiologiche ad aspetti avversi e nocivi del contenuto del lavoro, dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di lavoro” considera da un lato le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, i cosiddetti stressor ambientali o fonti di stress (contenuto del lavoro, organizzazione, ambiente) e, dall’altro, la valutazione soggettiva di tali stressor quale mediatore delle reazioni psicofisiche individuali.
Quando si parla di stress infatti ci si riferisce a un fenomeno soggettivo, in quanto ogni persona reagisce a possibili stressor, situazioni percepite come potenzialmente stressanti, in maniera diversa a seconda della propria personalità e della propria storia di vita: mancata realizzazione, discriminazioni, problemi nel rapporto con i colleghi, fattori organizzativi e cosi via (Avallone & Paplomatas, 2005).
Esistono persone che amano i confronti accesi o spostarsi continuamente per lavoro. Costoro potrebbero essere stressati da un lavoro stabile e sistematico, mentre la persona che preferisce un lavoro stabile, molto probabilmente sarebbe stressata da un lavoro dove deve cambiare spesso città. Inoltre, i nostri requisiti personali di resistenza allo stress e la quantità di stress che possiamo tollerare prima di avere cambiamenti negativi, varia con l’età e la situazione psicologica in cui ci troviamo.
Lo stress è dovuto alla disarmonia fra sé stessi e il proprio lavoro, a conflitti fra il ruolo svolto al lavoro e al di fuori di esso e da un grado insufficiente di controllo sul proprio lavoro e sulla propria vita. Una situazione stressante sul lavoro si ripercuote in modo negativo sulla qualità della vita complessivamente intesa e i suoi effetti non terminano con le ore del lavoro ma colpiscono anche prima e dopo e viceversa, la cosiddetta “sindrome del corridoio”. Il passaggio dall’ambiente di lavoro a quello privato e viceversa comporta frequentemente un trasferimento di residui emozionali negativi che impiantano in contesti non appropriati, con il rischio di sovraccaricare la capacità individuale di gestire sia le competenze lavorative che quelle private: accade cosi che di fronte a normali stimoli la soggettività individuale risulti ipersensibilizzata (Lasalvia, 2002).
Relativamente allo stress si può operare secondo tre tipi di intervento:
- livello primario, riduzione dei fattori che causano stress;
- livello secondario, gestione dello stress;
- livello terziario, programmi di assistenza al lavoratore.
Secondo la letteratura internazionale, nelle organizzazioni sono attuati prevalentemente interventi di secondo e terzo livello che mirano nel complesso a modificare stili di vita e di comportamento ritenuti responsabili di eventuali danni alla salute o a insegnare a reagire positivamente ed efficacemente a situazioni stressanti. Il livello primario si fonda invece principalmente sulla prevenzione, cercando di intaccare un potenziale processo di stress prima del suo avvio, giocando d’anticipo e modificando i fattori ritenuti possibili cause di stress anziché agire sulle conseguenze (Avallone & Paplomatas, 2005).
Lo stress legato all'attività lavorativa può essere determinato da una serie di fattori.
Secondo la Commissione Europea (1999) fra i più comuni figurano una quantità di lavoro assegnata eccessiva o insufficiente; un tempo insufficiente per portare a termine il proprio lavoro in modo soddisfacente; la mancanza di una chiara descrizione del lavoro da svolgere o di apprezzamento per una buona prestazione professionale; l’impossibilità di esprimere lamentele, responsabilità gravose non accompagnate da un grado di autorità o di potere decisionale adeguati; superiori, colleghi o subordinati non disponibili a collaborare o a fornire sostegno; mancanza di controllo o di giusto orgoglio per il prodotto finito del proprio lavoro; precarietà e incertezza del posto di lavoro; essere oggetto di pregiudizi riguardo all'età, al sesso, alla razza, all'appartenenza etnica o religiosa; essere oggetto di violenza o minacce; condizioni di lavoro spiacevoli o lavoro fisico pericoloso; impossibilità di esprimere effettivamente talenti o capacità personali; possibilità che un piccolo errore o una disattenzione momentanea possano avere conseguenze gravi o persino disastrose.
Quindi i fattori di rischio possono essere intrinseci al lavoro come cattive condizioni ambientali, lavoro a turni, orari lunghi, nuova tecnologia e l’organizzazione potrebbe intervenire proponendo soluzione ergonomiche e riprogettando compiti e lavoro.
Per quanto riguarda le relazioni interpersonali lavorative è auspicata chiarezza nella definizione dei ruoli, in quanto la sfiducia tra colleghi deriva spesso da bassa soddisfazione lavorativa, alta ambiguità di ruoli, scarsa comunicazione e mancanza di benessere psicologico.
Nei casi di difficoltà nel rapporto famiglia-lavoro l’organizzazione potrebbe aiutare i singoli fornendo servizi di counselling e orari più flessibili adottando politiche di impiego che tengano conto delle esigenze personali e familiari (Avallone & Paplomatas, 2005).
Tradizionalmente la ricerca sullo stress si è incentrata prevalentemente su come la persona sia in grado o meno di gestire e affrontare situazioni stressanti piuttosto che su come certi ambienti di lavoro possono provocare o alleviare stati di disagio o forte pressione. In realtà, come abbiamo appena visto, i fattori legati al lavoro non sono da sottovalutare. Nell’ambito di questa prospettiva è classico il lavoro di Karasek e Theorell (1990), che tenta di mettere in relazione due costrutti diversi: quello relativo allo stress con quello della riprogettazione del lavoro. Nel loro modello sono prese in considerazione tre variabili: le richieste che sono avanzate sul lavoro, la libertà decisionale, il supporto sociale.
Da questo filone di ricerche emerge che in un ambiente di tensione in cui è presente un alto grado di richieste ma un basso livello di controllo, le persone tendono a essere più rigide, meno flessibili e più inclini alla malattia. Diversamente negli ambienti attivi con un alto livello di domande e un altrettanto alto livello di controllo le persone hanno più opportunità di sperimentare le loro capacità, di apprendere nuove abilità e di metterle in atto, tendono ad avere un maggior sentimento di soddisfazione e uno stato migliore di salute. Relativamente allo stress occupazionale sono state avanzate proposte di intervento tra cui quelle dirette al singolo, con il fine di potenziare le risorse individuali necessarie ad affrontare con maggiore efficacia le situazioni ritenute stressanti. Una possibilità è agire sulla resilienza del lavoratore come vedremo tra breve.
La resilienza può aiutare il lavoro sociale e psicologico a livello di prevenzione e riabilitazione, infatti non attinge la sua forza soltanto alle condizioni naturali degli individui ma necessita anche di un aiuto esterno e di un ambiente che faciliti e appoggi uno sviluppo personale positivo (Fontana, 2002).
E’ chiaro che tutto è legato alla risposta individuale che risulta estremamente variabile perché nella stessa condizione di disagio, alcune persone hanno una reazione di un certo tipo mentre altre diversa; quindi non bisogna generalizzare in modo banale, però è importante capire che lo stress può incidere sulla nostra salute.
Il concetto di risposta psicodifferenziale rientra nel filone dello stress come risposta, uno dei tre filoni principali in cui la ricerca sullo stress può essere suddivisa e che abbiamo delineato precedentemente. Ogni persona ha una propria e specifica tipologia di allarme rispetto alla qualità del sovraccarico supportato.
Le differenti modalità di reazione degli individui dipendono principalmente da almeno due fattori: in primo luogo le condizioni circostanti dell’ambiente, che sono oggettive e che abbiamo appena illustrato, dall’altro la percezione individuale dell’ambiente, che si ritiene soggettiva. In altre parole possiamo affermare che a parità di condizioni ambientali, due persone possano avere percezioni radicalmente diverse.
In base a questo principio generale, Friedman e Rosenman (1974) hanno postulato la teoria della tipologia A – B.
Il tipo A manifesta un’elevata propensione ad essere iperattivo e nelle relazioni sociali tende ad essere competitivo, preferisce l’azione all’attesa e molto spesso pensa e riflette solo dopo aver agito. Pone delle elevate aspettative verso se stesso e verso gli altri. Sul lavoro commette parecchi errori ed altrettanti ne fa commettere a chi trascina con sé nella fretta di concludere il lavoro.
Il tipo B è molto riflessivo, preferisce pensare prima di agire, generalmente appare molto calmo, ma può agitarsi se viene messo alle strette da una scadenza che gli impedisce di mantenere costantemente il ritmo che preferisce. Quando ha la possibilità di organizzare il proprio lavoro ed i tempi di esecuzione in modo autonomo, non commette quasi alcun errore. Le aspettative verso se stesso e verso gli altri sono notevolmente condizionate dalla verifica dei fatti, che potrebbero confermarle o meno.
Altre ricerche (Henry & Stephens, 1977; Gebert, 1981) hanno mostrato che il tipo A possiede maggiori sintomi di stress rispetto al B. Le indagini in questione hanno messo in evidenza che il tipo A sovrappone il proprio lavoro alla propria identità. In questo modo egli rischia quotidianamente di provare delle delusioni causate da un proprio errore o da quello di un collaboratore. La sua credibilità dipende quindi anche dagli altri, che potrebbero deluderlo improvvisamente. Lo stress degli individui di tipo A deriva in gran parte dal fatto che spesso le loro strategie non sono affatto coerenti con le premesse e con le aspettative dell’intera organizzazione, in altre parole queste persone agiscono seguendo proprie convinzioni che non hanno alcun riferimento concreto con la realtà in cui si trovano. In caso di successo vivono forti euforie e quando cominciano un’attività raggiungono delle prestazioni elevate.
Le indagini sul tipo B hanno fotografato un soggetto molto più riflesso nel concreto, che tende a verificare i risultati delle sue azioni rispetto agli obiettivi generali, si identifica con il lavoro e ha sovente degli interessi lavorativi che riempiono la sua vita e il suo tempo. Questo consente di conquistare la tranquillità necessaria per affrontare quotidianamente le pressioni del lavoro.
Si può affermare che le differenze individuali hanno un ruolo determinante nel processo di stress, ed è proprio sull’individuo che è possibile agire al fine di promuovere una migliore capacità di gestione e percezione delle situazioni stressanti nei contesti lavorativi.
Dottoressa Annalisa De Filippo