Neuroni iperattivi in pazienti depressi resistenti agli SSRI
Un nuovo studio pubblicato sulla rivista “Molecular Psychiatry” apre la strada ad una nuova comprensione della resistenza farmacologica di alcuni pazienti depressi agli SSRI. Lo studio riporta che i neuroni cerebrali di pazienti con disturbo depressivo maggiore possono diventare iperattivi in presenza degli SSRI.
Gli antidepressivi più comunemente prescritti, gli inibitori selettivi del Re-uptake della serotonina (SSRI), sollevano diversi quesiti per il trattamento della depressione.
A tal proposito, la letteratura evidenzia come in circa un terzo delle persone con disturbo depressivo maggiore, gli SSRI non producono gli effetti desiderati.
Ora, i ricercatori del Salk Institute for Biological Studies della California, hanno individuato una possibile ragione per cui i neuroni di alcuni di questi pazienti potrebbero diventare iperattivi in presenza dei farmaci.
Lo studio è stato pubblicato il 30 Gennaio 2019 nella rivista “Molecular Psychiatry”.
“Questo è un passo promettente verso la comprensione del motivo per cui alcuni pazienti non rispondono agli SSRI e ci permetto di personalizzare meglio i trattamenti per la depressione”, afferma il Professor Salk Rusty Gage, autore senior dello studio, e presidente del John Adler for Research on Age-Related Neurodegenerative Disease.
La depressione colpisce 300 milioni di persone in tutto il mondo, e oltre il 6% della popolazione statunitense vive un episodio di disturbo depressivo maggiore in un determinato momento della sua vita.
La depressione maggiore è stata collegata ad uno squilibrio nella segnalazione delle serotonina, sebbene l'esatto meccanismo non sia ben compreso. Quando le cellule cerebrali segnalano la serotonina, il neurotrasmettitore viene rilasciato da una cellula, si lega ai recettori delle cellule vicine e viene quindi trasportato nella prima cellula.
Gli SSRI aumentano i livelli di serotonina disponibile per la segnalazione bloccando il trasportatore che normalmente sposta la serotonina all'interno delle cellule, in un processo noto come Re-uptake.

Gage ed i suoi colleghi, insieme ai collaboratori della Mayo Clinic, hanno studiato la gamma di risposte agli SSRI in 803 pazienti con depressione maggiore.
Da questo gruppo, hanno selezionato tre pazienti che hanno raggiunto la completa remissione dei loro sintomi depressivi con gli SSRI, e tre pazienti senza alcun miglioramento nella loro depressione dopo aver assunto SSRI per otto settimane.
I ricercatori hanno isolato le cellule della pelle da tutti questi pazienti e da tre soggetti sani che fungevano come controllo. Hanno usato tecniche di riprogrammazione delle cellule staminali per trasformare le cellule della pelle in cellule staminali pluripotenti indotte (Induced pluripotent stem cells, iPSCs), e da lì i neuroni.
“Quello che è eccitante è che possiamo guardare direttamente alle cellule umane, neuroni che di solito non sono accessibili nei pazienti viventi”, afferma Krishna Vadodaria, scienziata del Salk Institute e prima autrice dell'articolo.
“Possiamo finalmente sfruttare il potenziale di guardare i neuroni da individui di cui conosciamo la storia farmacologica, genetica e i profili di risposta”.
I ricercatori hanno studiato in che modo i neuroni derivati da ogni persona hanno risposto ad un aumento dei livelli di serotonina, imitando l'effetto degli SSRI.
Quando era presenta la serotonina, alcuni neuroni derivati dalla non risposta agli SSRI avevano in media un'attività significativamente più alta rispetto ai neuroni di individui sani o che rispondevano agli SSRI.
Quest'immagine artistica del Salk Institute mostra neuroni derivati da cellule staminali pluripotenti di pazienti depressi resistenti agli antidepressivi SSRI. I neuroni dei pazienti resistenti agli SSRI mostrano iperattività in risposta alla serotonina.
Lo studio rivela il potenziale meccanismo associato alla resistenza SSRI nel disturbo depressivo maggiore.
“Spero che questo apra la porta a molti altri studi su individui che sono casi estremi in termini di come rispondono ai trattamenti”, afferma Vadodaria.
“A sua volta, ciò aiuterà a comprendere la depressione maggiore nella popolazione più ampia”, hanno concluso i ricercatori.
A cura della Dottoressa Giorgia Lauro