Quale identità? Le strategie identitarie negli adolescenti immigrati. Ricerca qualitativa nella provincia di Lecce.
Dottoressa Mariangela Bandello
L’identità è continuamente modellata dalle richieste e dai valori dell’ambiente e della cultura in cui siamo immersi.
Nel momento in cui un individuo, cresciuto in un determinato ambiente, emigra in un Paese molto diverso dal suo, per lingua, cultura, valori, religione, stile di vita, mette in atto delle strategie identitarie adattative, ossia delle procedure, più o meno consapevoli ed elaborate, che sono utilizzate per far fronte alle richieste del nuovo ambiente, nel tentativo di farsi accettare, riconoscere, valorizzare. J.-C. Ruano-Borbalan (1998), afferma che, se generalmente gli immigrati hanno un problema d’identità, i livelli di conflittualità sono diversi tra adulti e adolescenti.
Mentre gli adulti soffrono meno la contraddittorietà tra i sistemi di riferimento delle due culture, quella d’appartenenza e quella d’accoglienza, grazie al fatto che la loro personalità è già formata, e quindi il trauma dei nuovi ruoli e del conflitto è più superficiale, o comunque facilmente superabile, ciò non accade per i giovani immigrati. Per gli individui della seconda generazione, cioè i figli degli immigrati, i processi d’identità e di riferimento culturale sono particolarmente diversi e complessi.
Le strategie messe in atto per difendere il sentimento d’identità, per mantenere un’immagine di sé coerente e positiva, sono influenzate da vari fattori: l’eventuale scolarizzazione nel paese d’origine, il grado più o meno elevato d’accettazione dello “straniero” nel paese d’accoglienza, l’eventuale stigmatizzazione del gruppo minoritario, con la conseguente svalutazione del soggetto che di quel gruppo fa parte.
Mi sono chiesta quali fossero le strategie utilizzate dagli adolescenti immigrati, soggetti che sono, per definizione, più “deboli”, per i quali il gruppo dei pari costituisce il punto di riferimento più importante nella continua affermazione di sé, in quel periodo della vita dove l’emergenza di differenziarsi dalla famiglia, dal passato, risulta essere l’istanza privilegiata.
Ho voluto verificare, attraverso la consultazione della bibliografia esistente, la produzione da parte di autorevoli ricercatori sullo stesso argomento. In particolare mi sono soffermata su due ricerche entrambe tratte dalla rivista “Antropologia del movimento”, di V. Bitti, Numero 01, 1999: quella della ricercatrice britannica, Marie Gillespie (sulla formazione dell’identità negli adolescenti d’origine Punjabi), e lo studio di Paul Gilroy sulla natura della cultura dei Blacks in Gran Bretagna.
Ho desiderato conoscere per ogni adolescente quanto e in che modo la percezione del deprezzamento di cui soffre influenzi la scelta della cultura, dei valori e degli ideali di sé.
Come sistema teorico di riferimento per l’analisi delle strategie identitarie ho utilizzato quello individuato da C. Camilleri, J. Kastersztein, E. M. Lipiansky, H. Malewska-Peyre, I. Taboada-Leonetti, A. Vasquez, raccolto in: Stratégies identitaires, 1999.
Per gli immigrati, la costruzione dell’identità è alquanto complessa, e passa attraverso l’utilizzo di strategie che riducano o annullino lo scarto tra l’immagine di sé e l’immagine di sé nell’ambiente.
Come mostra C. Camilleri, Stratègies identitaires, (1999), quando noi ci costruiamo, lo facciamo in un ambiente sociale che ha una configurazione di realtà parallela alla nostra. E’ l’eventuale scarto fra le due serie di operazioni, quella della società e quella che aspiriamo ad elaborare, ad essere vissuto come la messa in questione della nostra costruzione personale.
La strategia identitaria è quindi quella procedura, consapevole o no, che cerca di ridurre o annullare questo scarto, in una determinata situazione. Le strategie non sono solo il prodotto delle interazioni umane, ma sono anche elaborate in funzione delle nostre precedenti identificazioni, dei valori e della nostra storia personale.
Infatti. “Ognuno tende a modellare la propria identità sulle richieste e sui valori dell’ambiente e della cultura in cui è immerso. Ma che cosa succede a chi, cresciuto in un dato ambiente, emigra in un paese molto diverso per lingua, cultura, religione, stile di vita? Quali strategie identitarie adattive può mettere in atto per far fronte alle richieste del nuovo ambiente, per evitare di sentirsi emarginato e svalorizzato? 2”.
Il vissuto soggettivo, la percezione della discriminazione e la prospettiva futura sono i tre aspetti che attraverso la presente ricerca mi sono proposta di indagare e il cui approfondimento può essere effettuato attraverso l'utilizzo della metodologia qualitativa.
L’indagine è stata condotta sul territorio della provincia di Lecce, in particolare in tre casi gli adolescenti risiedevano nella città di Lecce, in un caso nel Comune di Galatina, e in un altro in quello di Martano. Nella prima fase della ricerca si avvia un’indagine di sfondo che vede coinvolti i servizi formali con riferimento agli immigrati: il Servizio Sociale della città di Lecce, e quello del Comune di Galatina, dove risiedo.
Nei casi esaminati sono coinvolti tre adolescenti immigrati, un minore, figlio di un matrimonio misto, e un ragazzo di altra etnia, adottato in giovanissima età. Ho incluso anche questi ultimi due casi benché non rientrassero nella “categoria” degli adolescenti immigrati, in quanto mi hanno offerto degli interessanti spunti di riflessione.
Il numero dei casi osservati esiguo è dovuto alla difficoltà nel reperire questi soggetti in un territorio, quello della provincia di Lecce, in cui il fenomeno migratorio appartiene alla storia recente.
RISULTATI
Il motivo alla base dell’immigrazione è sempre la ricerca, da parte dei familiari, di migliori condizioni di vita. Il primo insediamento è quello paterno, infatti, una prima fase dell’immigrazione, coinvolge immigrati prevalentemente di sesso maschile. Successivamente avviene il ricongiungimento familiare, in genere non prima di un anno, a causa dell’iter burocratico. Un’altra caratteristica osservata è quella che Lecce non è mai la città del primo insediamento.
La famiglia degli immigrati è, sovente, un nucleo spezzato: il padre vive altrove, per motivi di lavoro, anche quando è in Italia; oppure i figli rimangono in patria con i nonni o altri parenti, ma, molto più spesso, è solo il capofamiglia ad emigrare per motivi di lavoro e la madre e i figli rimangono nel Paese d’origine, sempre con la speranza che possa avvenire al più presto il ricongiungimento, appena le possibilità economiche lo permettano.
Il mantenimento della cultura d’origine sembra legato al tempo trascorso dall’immigrazione. In due casi, infatti, l’immigrazione appartiene alla storia recente, i ragazzi sono arrivati a Lecce da 2-3 anni al massimo. Essendo cresciuti nel paese d’origine questi soggetti avevano dei referenti culturali “coerenti” almeno fino a poco tempo fa, ed hanno potuto mantenere una salda immagine di sé, grazie ai contatti che, in misura maggiore o minore, hanno comunque mantenuto con la comunità d’appartenenza (frequentazione di connazionali, telefonate in patria).
Al contrario, sembra che crescere in un paese diverso da quello dei propri familiari voglia dire fronteggiare due culture contrapposte, senza la possibilità di una mediazione fra le due.
E’ per questo motivo che la scelta del gruppo maggioritario, dei coetanei, più di ogni altra soddisfa le esigenze di socializzazione dei ragazzi che sempre, soprattutto in fase adolescenziale, tendono a trovare nel gruppo dei pari la conferma del proprio valore e delle proprie potenzialità nel processo di assunzione di una identità adulta. Ed è la frequentazione dei coetanei e l’assunzione dei loro modelli di vita che garantisce l’integrazione nel paese d’immigrazione.
Generalmente gli immigrati, (I. Schiaffino, L’associazionismo degli immigrati a Roma, 1997; R. D’Arca, L’immigrazione dai paesi in via di sviluppo in Puglia, 1993), una volta giunti nel paese d’accoglienza, si aggregano in gruppi, spesso fondati su vincoli di parentela, in cui si ricreano le condizioni per produrre, nel paese d’immigrazione, un ambiente sociale noto per i migranti, ed è naturale che al loro interno alcuni fondamenti della cultura del paese d’origine siano mantenuti: l’espressione quotidiana nella propria lingua madre, l’appartenenza religiosa, o le celebrazioni di feste tradizionali, che costituiscono un’occasione di intensificazione dei contatti con le proprie comunità di provenienza.
In questo senso si può dire che siano mancati contatti con i propri connazionali che garantissero questi scopi. Anche questa carenza può aver direzionato la scelta della strategia identitaria, rendendo difficoltosa una rivalorizzazione delle proprie origini senza per questo facilitare il meccanismo d’integrazione.
L’identità non è “chi sono io?”, ma “chi sono io in rapporto agli altri?”, “chi sono gli altri in rapporto a me?” (J.-F. Gossiaux).
L’identità è l’immagine nello specchio, ma questo specchio non ci dice come siamo, ma come ci vediamo con gli occhi degli altri.
Non siamo individui isolati ma sempre immersi in una ricca rete di rapporti sociali, in infinite interazioni e reciproche influenze.
Il gruppo dei pari si è rivelato ancora una volta lo strumento privilegiato della costruzione identitaria, soprattutto in fase adolescenziale. Quando è mancato si è verificato l’isolamento, il ripiegamento su se stessi, ma sovente ha rappresentato l’unico accettabile termine di paragone, assicurando l’identificazione.
Il grado d’accettazione e il riconoscimento che avvengono al suo interno, infatti, sono responsabili della gamma di strategie che vanno dalla più completa assimilazione alla cultura d’accoglienza, fino all’isolamento estremo.
E’ tale l’esigenza di una valutazione in positivo che può accadere che il riconoscimento dell’individuo, da parte del gruppo come un suo membro, permetta la negazione delle contraddizioni vissute quotidianamente.
“Sono italiano, leccese”, ma la paura di essere identificato con il suo gruppo d’origine spinge poi il ragazzo a farsi accompagnare dall’assistente sociale, per non parlare delle estremizzazioni, come per esempio la contrapposizione in famiglia del vernacolo all’idioma senegalese, o il partecipare alla costituzione di un gruppo musicale che canta nel dialetto leccese.
Un’assimilazione che passa attraverso la negazione della discriminazione: “Non mi hanno fatto mai problemi per il colore della pelle. Qualche volta con gli amici, quando litighi, ti fanno: ehi, negro! Ma così, niente di serio.”
E’ vero che l’insediamento in Italia non è stata una scelta degli adolescenti immigrati: nessuno di loro ha deciso di intraprendere un viaggio di piacere verso una nuova cultura, o un viaggio della speranza, alla ricerca di migliori condizioni di vita. Ma hanno preso tutti la stessa decisione: rompere con il passato, anche se questo significava la rottura dei legami familiari.
La famiglia non permette mai all’adolescente di “costruirsi” un’identità adulta, essa è il luogo delle contraddizioni. Se spinge il ragazzo ad impegnarsi nella riuscita sociale che gli stessi familiari desiderano, contemporaneamente impone al ragazzo di costituire un ponte tra il vecchio e il nuovo, tra le loro tradizioni e cultura, e quelle del paese d’accoglienza.
Questi adolescenti si fanno carico delle comunicazioni tra due mondi diversi, ma ciò va a discapito della loro stessa identità.
Soprattutto per chi è cresciuto nel “nuovo mondo”, dilaniato tra due culture contrapposte, senza possibilità di mediazione tra esse. La scelta della strategia identitaria, in questo caso, è automaticamente indirizzata. La frequentazione dei coetanei e l’assunzione dei loro modelli di vita garantiscono l’integrazione nel paese d’immigrazione. Il gruppo maggioritario soddisfa così le esigenze di socializzazione del ragazzo facendogli trovare la conferma nel proprio valore e potenzialità.
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articolo a cura della Dottoressa Mariangela Bandello
(originariamente pubblicato su Psiconline.it il 29.3.2002)